Lina de Lima

Lina from Lima (2019)

Lina de Lima è il primo lungometraggio di finzione della regista María Paz González, presentato al FESCAAL (Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina) del 2021, e vincitore della sezione “Donne sull’orlo di cambiare il mondo” (titolo che strizza l’occhio al film di Almodovar). Lina, interpretata dall’attrice e cantautrice Magaly Solier, è una migrante peruviana che lavora da anni come impiegata domestica e babysitter in Cile. Il film, che mischia il genere del dramedy con quello del musical, segue la vita di Lina nei giorni prenatalizi, durante i quali supervisiona la costruzione di una piscina nella nuova, lussuosa casa della famiglia per cui lavora.

Lina esorcizza la nostalgia del Perù per mezzo della propria fantasia, rappresentata sullo schermo con i codici del musical: la protagonista evade la realtà alienante in un altrove immaginario, diventando la superstar del proprio mondo interiore. Ecco che la tragedia, la realtà “di plastica” in cui Lina vive (come di plastica è l’involucro del materasso su cui consuma i rapporti sessuali occasionali), si riempie di luce e colori, per accedere ad uno spazio emotivo ed intimo, governato dai sentimenti.

Durante una di queste sequenze musicali, Lina canta Me dessangro sin llorar (sanguino senza piangere): la regista vuole infatti denunciare la condizione delle donne migranti che spesso non hanno il tempo per esternare i propri sentimenti, né tantomeno per concedersi la terapia. Lina è una donna forte e fiera (emblematica è la sequenza onirica della piscina, in cui si moltiplica -letteralmente- in centinaia di altre sé che la incoraggiano a “tuffarsi” nell’ennesima sfida), ma possiede anche un’anima genuina, sensibile e, a differenza delle persone che la circondano, antepone sempre le relazioni umane al grezzo materialismo. Forse l’unico altro personaggio autentico del film è il migrante interpretato da Herode Joseph: pur parlando una lingua diversa, i due riescono a comunicare attraverso il linguaggio dell’empatia. Solo con lui, Lina riesce ad abbandonarsi in un pianto catartico, per poi riprendere subito in mano la propria vita con tutto l’ottimismo che la contraddistingue.

La tecnologia è l’altra grande protagonista del film. Lo smartphone di Lina è sia uno strumento di evasione ed emancipazione sessuale (infatti viene usato per Tinder), sia un oggetto ambivalente: l’amore per la sua terra e la sua famiglia in Perù passa attraverso questo terzo dispositivo, che unisce e allo stesso tempo divide, che è un alleato ma allo stesso tempo un ostacolo. Lina si “libera emotivamente” dalle proprie catene virtuali solo quando sceglie di non rispondere alla chiamata del figlio, preferendo il “qui ed ora” dell’abbraccio dell’uomo che dorme accanto a lei.

Lina non è l’unica donna a doversi confrontare con le conseguenze della decisione sofferta (e spesso obbligata) di separarsi dalla propria terra natale e di rinunciare ai propri affetti: come lei, sono in tante quelle che si trovano nella sua stessa condizione. La regista ce lo mostra in una scena alle poste, in cui una lunga fila di donne migranti inviano regali e denaro alla propria famiglia lontana. Davanti a quest’immagine di collettività e solidarietà femminile, il messaggio sembra essere: “si può provare solitudine, ma non si è mai sole”.

Lina è un personaggio dinamico, ma al tempo stesso immobile, impossibilitata a raggiungere la meta desiderata. La regista si mette allo stesso piano della sua protagonista e l’accompagna il tempo necessario per poterne catturare piccoli frammenti di vita; il suo sguardo non è mai giudicante, ma sempre capace di cogliere le complessità e le fragilità di una realtà marginale, mai vittimizzando l’esperienza della migrazione femminile ma, anzi, restituendone un’immagine piena di dignità.