NORMAL

Normal (2019) è il film-documentario di Adele Tulli che indaga il concetto di normalità nella nostra società, basata su solidi pilastri di stereotipi di genere che hanno la funzione separare rigidamente il femminile dal maschile. Il metodo di ricerca adottato dalla regista per la scrittura di Normal si basa su lunghe interviste in Blablacar: i viaggi con persone sconosciute nello spazio intimo e privato di una macchina diventano per lei un’occasione per riflettere sulle dinamiche di genere, e su come queste diano forma ai nostri desideri, alle nostre aspettative, e al nostro modo di essere. Adele Tulli è molto sensibile a queste tematiche di genere, tanto che nel suo film precedente, Rebel Menopause, aveva analizzato i tabù legati all’invecchiamento della donna, rivendicando la bellezza di crescita e di trasformazione di un corpo, attraverso un immaginario femminile che viene raramente rappresentato al cinema.

Normal non racconta protagonismi ed esperienze individuali, ma mostra scene simboliche di un sistema più ampio: è un film povero di dialoghi (anche quando parlano, le persone non esprimono mai loro specifiche idee, ma sono sempre portavoce di regole sociali), ed ha luogo in quegli spazi pubblici in cui più emergono le dinamiche di genere.  

Il film si struttura come un collage di scene, separate tra loro nello spazio e nel tempo. Ogni scena acquisisce un significato e un ritmo specifico all’interno del mosaico complessivo, e il senso del film si evince dal ragionamento innescato dall’unione di questi frammenti del quotidiano. La regista è interessata a mostrare quelle scene che presentano un conflitto (e dunque una profondità) al loro interno; per esempio, nella sequenza iniziale, la bambina prova dolore nel farsi fare i buchi alle orecchie, ma allo stesso tempo cogliamo un’ombra di compiacimento sul suo volto. In Normal emerge la conflittualità dei sentimenti che pervade ciascun individuo nel momento in cui deve compiere certe aspettative sociali. Lo spettatore prova empatia per i personaggi di Normal e compresione per le loro scelte perché, per quanto la norma sociale possa essere claustrofobica e possa portarci a sacrificare tanto di noi stessi per aderirvi, è umano e legittimo il desiderio che sta alla base del conformismo sociale, cioè quello di non sentirsi emarginati.

Normal è costruito su una continua oscillazione stilistica tra inquadrature naturalistiche ed inquadrature artificiali, queste ultime accompagnate da distorsioni sonore che trasportano lo spettatore in atmosfere inquietanti ed aliene (come accade per esempio nella scena della giostra o in quella al parco). Da una parte, i momenti di empatia e vicinanza con i personaggi di Normal fanno in modo che lo spettatore possa trovare qualcosa di sé in queste regole sociali, sentendosi complice di questo meccanismo, e che quindi si metta in discussione in prima persona, dall’altra la sensazione di angoscia e confusione genera distanza ed estraniamento, che favoriscono una messa in discussione ed un’analisi lucida di ciò che si vede.

La scena in cui la wedding planner insegna alle donne come essere mogli e madri perfette è posta in antitesi con quella successiva dell’addio al nubilato, costruita su un immaginario alla Sex and the City. Nessuno di questi due modelli mostrati, né quello bigotto né quello capitalistico liberale che vede il divertimento come possibile canale di emancipazione, risulta essere vincente per la donna. Con gli anni, alcuni codici normativi si traducono in altri, ma la donna sembra rimanere sempre impigliata ad un compiacimento fallace: la libertà dagli stereotipi di genere non risiede né nel curare il marito come fosse un secondo figlio, né nel mostrarsi sessualmente attive (ma non emancipate).

Nel film è presente un forte discorso di oggettificazione e critica al male gaze. Il corpo femminile appare spesso frammentato, come nella sequenza sott’acqua, o in quella dall’estetista, o ancora in quella delle selezioni per Miss Mondo. In quest’ultima sequenza, in particolare, quello che raccontano le potenziali miss alla giuria non è in sintonia con ciò che lo spettatore vede; a causa di questa distorsione parola-immagine, lo spettatore si sente a disagio e prende in esame la giuria stessa, che è colpevole di oggettificare il corpo femminile in quel modo. 

Il film si conclude con la celebrazione di un matrimonio omosessuale. Da una parte, per la prima volta, c’è una messa in discussione dell’aspettativa etero-normativa per eccellenza: il matrimonio eterosessuale. Nella nostra società, infatti, il matrimonio è considerato il traguardo finale del tutto, e simboleggia l’inizio di un nuovo ciclo di riproduzione e reiterazione della norma. La celebrazione di un matrimonio omosessuale apre dunque lo spiraglio ad un possibile mondo technicolor, che va oltre i generi imposti socialmente. Dall’altra parte, però, la dinamica omosessuale che, all’interno di un mondo etero-normale, dovrebbe rappresentare un potenziale sovversivo, finisce anch’essa con l’aderire alla norma sociale. Il finale è dunque ambiguo, proprio perché lo scopo del film non è quello di trovare risposte, bensì quello di suscitare interrogativi, facendo riflettere sul concetto di normalità, e portando lo spettatore a mettersi in discussione come individuo in relazione al sociale.

Non sembra essere presente alcun elemento rivoluzionario in questa normalità talmente inquietante da sembrare finzione, se non negli sguardi degli individui in cui si può cogliere, in maniera quasi impercettibile, un qualche segnale di resistenza, una messa in discussione dei modelli comportamentali che ci vengono impartiti fin dalla nascita.