Il cinema di Naomi Kawase parte dalla sua storia personale, e Katatsumori è l’esempio di come il personale possa diventare universale.
Abbandonata dai genitori quando era ancora piccola, Kawase viene adottata dalla nonna, nella quale trova una casa, sia fisica che spirituale.
Katatsumori viene girato in forma quasi amatoriale: le inquadrature imperfette, montate insieme ai suoni e alle voci, evocano un’atmosfera poetica in ogni singolo frame. Attraverso frammenti della vita di tutti i giorni, la regista racconta un concetto trascendentale: l’amore tra una nonna e sua nipote.
In Katatsumori sono già presenti tutti gli elementi ricorrenti del cinema della regista giapponese (che ritroviamo sia nei suoi documentari che nelle fiction): il rapporto tra l’umano e la natura, la memoria, il senso di perdita, la nostalgia, la morte e la rinascita, la ricerca della propria identità attraverso l’altro, lo sguardo incantato sul mondo.
Il rapporto tra l’umano e la natura
I personaggi femminili nel cinema di Kawase affrontano spesso un percorso di crescita personale e di metamorfosi, sono tridimensionali, fluidi come l’acqua e la luce (entrambi elementi ricorrenti nei suoi film).
In Katatsumori, i primi piani e i dettagli sul volto della nonna, in cui è già presente un quieto senso di “epilogo”, sono messi in relazione con gli elementi naturali: la pelle rugosa richiama, per esempio, la corteccia dell’albero. La nonna è destinata a trasformarsi in albero… o in luce; lei continuerà ad esistere nella natura, e la regista sembra comunicarcelo con un gesto ripetuto: quando stacca la mano dalla camera, per farla entrare in campo; la prima volta, per accarezzare il volto della nonna, e la seconda, per accarezzare un raggio di luce, che filtra attraverso la finestra come una presenza divina e fantasmatica.
La memoria e la nostalgia
La fotografia opalescente, traslucida, evoca un’atmosfera ultraterrena, onirica e nostalgica. La regista percepisce la nostalgia di un momento che sta osservando che, nell’atto stesso di filmarlo, diventa già ricordo. C’è un chiaro desiderio di rendere la nonna immortale attraverso il film, e Kawase la segue con la camera in modo quasi ossessivo, perché non vuole perdersi niente, vuole ricordare tutto di lei, e continua a riprenderla finchè non arriva il momento di andare a dormire e “chiudere gli occhi”.
La ricerca della propria identità attraverso l’altro
Forse è anche a causa della sua storia personale che la regista sente il bisogno continuo, quasi ossessivo, di filmare: per rimettere insieme i pezzi della propria identità, per riappropriarsi di sé.
In Katatsumori la regista è sia il soggetto che l’oggetto delle riprese. Uno dei momenti più importanti è quando la nonna prende in mano la camera, la volta verso Naomi, e inizia a filmarla. La regista è consapevole dell’impossibilità di raccontare sua nonna omettendosi dalla narrazione, dal momento che le due donne sono profondamente legate, come se l’una vivesse nell’altra.
Il titolo stesso del film “Katatsumori” significa “lumaca”, cioè un mollusco che porta con sé il proprio guscio, la propria casa: tutto ciò che gli serve lo possiede già addosso a sé. La lumaca è sia la metafora della nonna, che lentamente svolge le attività domestiche, sia metafora della stessa regista, il cui guscio-casa che porta in sé è la nonna.
Morte e rinascita
Il cinema di Kawase è un cinema positivo, pieno di speranza: dopo ogni dramma, c’è sempre una nuova primavera. In Katatsumori, il campo che la nonna coltiva con tanta dedizione e cura, la ciclicità del raccolto, qualcosa che appassisce e qualcos’altro che sboccia, è la metafora della vita: il lento invecchiare, la morte e la rinascita.
La bellezza era lì anche prima che qualcuno la vedesse?
L’intera filmografia della regista è caratterizzata da una visione naive, incantata sul mondo, ed una pulsione vitalistica che emerge da qualsiasi dettaglio su cui il suo sguardo si posa. Katatsumori è un film estatico, fatto di farfalle nello stomaco e magia. Le immagini che vediamo, ci restituiscono l’emozione di chi osserva la vita attorno a sé con genuino stupore, sorprendendosi per le piccole cose come una manciata di semi, la luce che filtra tra i rami degli alberi, un paio di vermicelli nella terra, una nuvola. La sensazione, a volte, è che la regista filmi per il solo piacere ludico di filmare, aspettando che capiti qualcosa di straordinario di fronte a sé. Ma non capita mai niente, perché sta già capitando tutto: Kawase rende l’ordinario, straordinario, solo guardandolo. Il suo cinema rappresenta “la poesia dello stare al mondo”.