Nomadland

Vincitore del Leone d’oro alla scorsa Mostra del cinema di Venezia, l’ultimo lavoro di Chloé Zhao continua idealmente un percorso estetico e tematico già iniziato con i precedenti  “Songs My Brother Taught Me” e il bellissimo “The Rider”, caratterizzati da un particolare realismo, congiuntamente poetico e documentaristico. È un percorso in cui la riflessione sui concetti di privazione e mancanza è messa in scena attraverso uno stile sobrio e intimista, che non disdegna però di essere intenso e penetrante nella figurazione dei sentimenti umani.

Basato su un libro di saggistica della giornalista Jessica Bruder (“Nomadland: Surviving America in the Twenty-First Century“), il film segue uno scorcio di vita di un personaggio di finzione (Fern) che decide di mettersi in viaggio dopo un avvenimento realmente accaduto: la scomparsa della cittadina aziendale di Empire (Nevada), che dopo la Grande Recessione è stata dismessa sino alla cancellazione del codice postale. Poco dopo la morte del marito, senza più niente che la leghi in quei luoghi, Fern decide di racchiudere tutta la sua vita in un camper e vivere come nomade. Proprio il connubio tra realtà e finzione può essere considerato il marchio più riconoscibile della Zhao nonché la capacità di gestire con armonia il sottilissimo filo che li lega e separa. Non a caso la regista cinese è bravissima nel lavorare con attori non professionisti (che interpretano per lo più loro stessi) e la cosa si ripete anche con Nomadland. Rispetto ai due film precedenti, però, la Zhao (che oltre ad aver diretto il film lo ha anche scritto, montato e co-prodotto), decide di inserire un – potenziale – elemento di disturbo: il volto riconoscibilissimo (e la professionalità attoriale) di una star del cinema come Frances Mcdormand. L’incantesimo, però, non si spezza.  E buona parte del merito è anche dell’attrice americana, che riesce ad equilibrare la sua performance con un naturalismo che non stona con lo stile della Zhao, né con le interazioni con gli attori non professionisti.

Un’altra dicotomia interessante è legata alla messa in scena del rapporto tra uomo e natura. Da una parte un percepito senso di libertà e connessione con la bellezza della vita, così come la capacità di godere delle piccole cose; dall’altra, la figura umana che si perde nella vastità dei paesaggi sottolinea emotivamente una sensazione di solitudine quasi ineluttabile. E questa dicotomia nel responso emozionale rivela l’abilità e il proposito dell’autrice di rappresentare la vita nomade senza alcun tipo di giudizio, positivo o negativo che sia. La Zhao non romanza la vita sulla strada né condanna o glorifica la sua protagonista, ma si limita (per modo di dire) alla figurazione delle emozioni più pure.

Se Nomadland parla indubbiamente del fallimento del sogno americano (con sentimento, ma senza sentimentalismo), lo fa senza perdere mai di vista il singolo, l’essere umano e le sue emozioni. Per quanto le implicazioni politiche e sociali siano inevitabili, il film della Zhao, più che avere le caratteristiche di una denuncia sociale, si sviluppa come una riflessione sulla condizione umana, sulla perdita e sull’empatia. È un film contemplativo e paziente, che tocca le corde giuste solo se lo spettatore sa esserlo altrettanto. La struttura narrativa non è legata ai canoni del racconto classico e non cerca il dramma a tutti i cosi. Non ci sono punti di tensione o di svolta e l’emozione, più che costruita su espedienti narrativi, sembra vivere di vita propria. Questa predisposizione di Chloé Zhao ha qualcosa di miracoloso, così come quella particolare capacità del suo cinema picchiare duro con una carezza. Per questo, e per altri motivi, sarà interessante vedere come si evolverà la sua poetica nei progetti futuri e come riuscirà a eventualmente a equilibrarla con differenti esigenze produttive.