Spencer

Dopo Neruda e Jackie, Pablo Larraín torna con un altro biopic atipico, talmente avulso alle regole del genere da far sembrare un errore considerarlo tale. Anche in Spencer, così come nei lavori precedenti, il regista cileno spoglia il personaggio principale dalla figura pubblica per concentrarsi sul privato e l’umano; un privato che – seppur con la sua inevitabile dose di finzione – non risulta eccessivamente romanticizzato.

Presentato in anteprima alla 78esima Mostra del cinema di Venezia, il film si sviluppa nell’arco di soli tre giorni della vita di Diana Spencer, dando per scontato che il pubblico sia già a conoscenza di tutto quello che c’è da sapere su una delle figure femminili più “vivisezionate” dai media nella storia recente. La scelta è quella di lasciare qualsiasi evento storico al di fuori della pellicola per concentrarsi, come suggerisce il titolo, sulla donna dietro al titolo reale piuttosto che sull’icona e sugli avvenimenti che hanno contribuito a edificarla.

Evitando l’utilizzo di un elenco cronologico di situazioni descritte asetticamente, regista e sceneggiatore scelgono di lavorare all’interno di una dimensione più intimista e raccolta, virando su un tipo di narrazione che ha più elementi in comune con l’horror psicologico che non con un film storico o biografico.
La dimensione spazio-temporale del film contribuisce a perpetuare quest’estetica, in una lotta continua tra l’atemporalità di una tradizione che sembra fagocitare il futuro e la caducità umana della protagonista, che vaga spesso in uno spazio labirintico in cui è difficile orientarsi.

La scelta di affidare a Kristen Stewart l’interpretazione di Diana era stata accolta da molti in modo scettico, sia per la lontananza estetica tra le due donne che per la tendenza dell’attrice ad esser troppo riconoscibile in qualsiasi tipo di ruolo. In realtà la sua performance è uno degli aspetti che meglio funzionano, tanto che non sarebbe azzardato pensare a Spencer come al suo miglior lavoro in carriera.
Il ruolo di Diana è forse quello per cui l’attrice americana è riuscita meglio a scrollarsi di dosso se stessa, annullandosi completamente a livello superficiale per sfruttare il suo vissuto in modo più sottile, con un’interpretazione profondamente personale e coinvolgente. Il merito sta anche nel non aver ceduto alla tentazione di uno scopiazzamento mimico e farsesco, ma di aver optato per una rivisitazione sobria in cui – con suo grande merito – Kristen Stewart risulta riconoscibile ma non più invadente.

Anche la collaborazione tra regia di Larraín e fotografia di Claire Mathon funziona egregiamente, sia nella composizione degli elementi dentro il quadro – quasi a dichiarere visivamente la prigionia all’interno di schemi prestabiliti – sia nella scelta di indugiare in piani ravvicinati che aumentano claustrofobia e inquietudine, ben descritte dall’invadenza asfissiante dello score di Jonny Greenwood.

L’estetica che ne deriva contribuisce a trasmettere quel senso di malinconia e fatalità che alimentano il carattere spettrale della pellicola. In tutto ciò ha un ruolo fondamentale la conoscenza pregressa del pubblico che, proiettando sullo schermo ciò che avverrà in futuro, incrementa quella vaghezza spazio temporale di cui si parlava in precedenza.
D’altra parte, c’è il pericolo che la familiarità dello spettatore con la protagonista possa pesare anche in negativo, così come potrebbe essere sfavoreole l’uscita del film a pochi mesi dall’ultima, bellissima, stagione di The Crown.

Per quanto il lavoro del regista cileno abbia un’impronta ben riconoscibile, alcune volte si ha la sensazione che ormai “non ci sia più nulla da dire”. In questo senso, la scelta di concentrarsi solo su una “parte” per raccontare il “tutto” è ampiamente condivisibile nonostante non sempre possa portare i frutti sperati, anche con al comando un autore dal talento sconfinato come Larraín.
Se in alcuni momenti il surrealismo del film funziona perfettamente (come in tutte le scene legate al simbolismo della collana), in altri la narrazione si appiattisce in situazioni goffamente descrittive (che culminano nell’apparizione di una Diana nei panni di Anna Bolena).
Nonostante alcune mancanze, però, Spencer è un film che ha un’anima. E quando tutti gli elementi filmici comunicano e si amalgamano alla perfezione, si capisce perché Larraín sia unico nel riuscire a catturare l’autenticità della fragilità umana dietro al suo simulacro storico.